È da tempo che mi sto sforzando di cercare di capire come abbiamo fatto ad arrivare ad una situazione come quella presente in cui pare che nessuno di noi farmacisti sappia con chiarezza chi è, cosa deve fare e come deve farlo.
C’è stato un tempo, neppure troppo lontano, in cui sembrava tutto abbastanza chiaro: i farmacisti compravano e vendevano farmaci traducendo con consumata perizia gli sgorbi indecifrabili che costituivano l’essenza delle ricette, rigorosamente su carta del Poligrafico dello Stato, depositari di un sapere misterioso e taumaturgico, assolutamente indispensabile ad un pubblico ignaro che si affidava loro con fiducia e speranza.
“È meglio di un dottore!” Quante volte i più vecchi di noi si sono sentiti ringraziare con frasi come queste?
Siamo nati nobili, molto nobili, di un rango così elevato da essere considerati il punto di riferimento di ogni comunità; siamo nati “importanti”, naturalmente destinati ad essere i protagonisti di un mondo variegato e complesso come quello della sanità territoriale, da sempre alla caccia di leader e capi carismatici in grado di gestire le infinite, tormentate difficoltà degli ammalati e dei bisognosi di cure e di conforto.
Sopra di noi c’era solo il medico, al quale ci legava un rapporto di mutua e tacita collaborazione: eravamo il suo braccio armato, il suo emissario nella giungla della quotidinianità, l’unico, prestigioso, avamposto nella guerra infinita contro la malattia e i gli infiniti disagi della vita che volge al suo termine.
La secondogenitura è un destino complesso da gestire: puoi accettarla e farne un punto di forza; puoi subirla e cadere nella sindrome della ruota di scorta, dell’eterno secondo, di colui che rinuncia ad una suo tratto distintivo, ad una sua peculiare eccezionalità, per incarnare a vita il pezzo di ricambio, quello che avrebbe potuto essere ma non è, colui che arraffa le briciole nella vana speranza di valere anche lui qualcosa, di “essere” qualcuno.
È una caduta all’inferno, non tanto per un dato oggettivo (ricordo a tutti l’importanza del ruotino di scorta quando si buca una gomma!) quanto piuttosto perché “sentirsi” la ruota di scorta comporta una continua autosvalutazione, una perenne mancanza di autostima, ci condanna alla necessità di accontentarci sempre di poco o di nulla cercando di acchiappare ogni possibile e impossibile occasione per metterci in luce, di fare anche noi qualcosa di buono e di utile, insomma di “esserci”.
Ciò che ci identifica come ruota di scorta non è quello che facciamo, ma il motivo per cui lo facciamo: non ci mettiamo a fare tamponi come se non ci fosse un domani perché, come gestori e amministratori della sanità territoriale, abbiamo il ruolo e la funzione professionale per offrire alla popolazione un servizio indispensabile in un momento critico, ma come l’ennesimo arraffo per far cassa, senza badare a nient’altro se non alla portata dell’incasso serale.
Leggo, un po’ ovunque, testimonianza entusiaste di “chi ce l’ha fatta”, di quei colleghi coraggiosi e particolarmente virtuosi che raccontano l’anatomia del loro successo e continuo a chiedermi in che modo mi dovrebbero ispirare: spirito di emulazione? Speranza e fiducia nel futuro? Desiderio di competere nell’irrinunciabile gara a “chi ce l’ha più lungo”?
Neppure una parola, mai, su come si fa, come si può riemergere dal mortale baratro dell’eterno tappabuchi, da dove si deve cominciare per costruirsi una propria identità davvero indipendente, da che parte prendere in mano il nostro destino per forgiarlo in modo diverso e unico.
Non so voi, ma io non solo mi sono stufata di essere, ma soprattutto di sentirmi una ruota di scorta; non ne posso più di essere trattata come quella che deve continuamente mettere pezze ad un sistema che ha più buchi di un colabrodo e che deve anche vergognarsi per il denaro che guadagna come se lo rubasse; non sono più disposta ad essere considerata un professionista sanitario di serie B perché l’unico ruolo che mi viene attribuito è quello di commesso laureato.
Da dove cominciamo?
Dall’inizio, mi verrebbe da dire, e cioè dal nostro paziente: chi è, cosa pensa, cosa vuole, in che cosa crede.
Ho detto “paziente”, non “cliente”, perché non mi occupo di “consigli per gli acquisti”, ma di sostegno e cura di persone ammalate, delle loro terapie e dei loro problemi.
Nel prossimo post vi darò il link per accedere al video che ASFI ha preparato per Cosmofarma in cui cerco di fare qualcosa di pratico e concreto per aiutare tutti noi a costruire dei servizi comprensibili e utili per il nostro pubblico: cerchiamo, un passo alla volta, di crearci una nostra identità partendo dal punto più critico e delicato, la ricerca del cliente in target, dei suoi bisogni, delle sue fragilità.
Cosa ne pensate?
Vi siete mai sentiti il tappabuchi del SSN?